Menu
il caso Riina: Il diritto e la forza dello Stato (La NUova Sardegna, 7/6/2017)

il caso Riina: Il diritto e la forza dello Stato (La NUova Sardegna, 7/6/2017)

Io Totò Riina l’ho conosciuto. Sono quegli incontri che ti segnano per sempre e di lui ricordo soprattutto lo sguardo: intenso e forte. Pesante. Lo incontrai insieme ad un Magistrato di Sorveglianza per una rogatoria. Fu una cosa spiccia e fu l’unica volta che ci scambiammo alcune parole. Poi ebbi modo di fargli avere i libri sulle vite dei santi che chiedeva dalla biblioteca dell’Asinara. Non chiese mai di parlare con me e non chiese di parlare con nessuno. Trascorreva tutto il giorno dentro un silenzio opprimente nella cella videosorvegliata ricavata nel transito, vicino alla diramazione Centrale. Vidi le sue carte.  Lessi i capi di imputazione e studiai con attenzione l’ordinanza che applicava l’articolo 41 bis. Il carcere duro. Totò Riina è malato e qualcuno ha paventato la possibilità che egli possa godere di un differimento della pena, ovvero di una pausa del peso afflittivo, sino a quando potrà sopportare il regime penitenziario e dovrà ritornare in carcere. Chiaramente, se dovesse davvero uscire, sarà difficile che rientri in un istituto penale e, probabilmente, potrà morire a casa sua o in un letto d’ospedale. Già il Procuratore Generale Nico Gozzo nel luglio del 2016 definiva una “vendetta” la conferma del 41 bis a Provenzano e, in linea di principio, potremmo essere d’accordo. Però le cose sono diverse e non sempre i percorsi giuridici camminano sulle strade dell’etica e della ragion di Stato. Il 15 luglio 2016 scrissi, sempre sulle pagine di questo giornale, che non ero d’accordo sull’affievolimento del carcere duro a Provenzano. Non ho cambiato idea. Non potrei. Ho conosciuto migliaia di detenuti e a quasi tutti lo Stato ha concesso, attraverso gli strumenti legislativi, una possibilità. Lo ha fatto anche con chi si era macchiato di delitti orribili. Lo ha fatto con assassini, sequestratori di persona, violentatori, pedofili. Io l’ho fatto per mestiere e convinto che il principio costituzionale debba valere per tutti quelli che intraprendono un percorso sbagliato. Tutti hanno diritto ad un banco di prova. Compresi Riina e Provenzano. Con qualche distinguo. L’articolo 27 della Costituzione contempla che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il passaggio sulla rieducazione non è semplicemente di offerta ma anche e soprattutto di domanda: tu detenuto devi essere disposto a rimettere sul tavolo la tua vita, ad analizzare gli errori, a prendere in considerazione altri modelli di comportamento. Questo è un passaggio difficilissimo in quanto sono moltissimi che dicono e affermano di essere cambiati salvo poi continuare a delinquere non appena hanno ottenuto un beneficio. Sono incidenti di percorso che vanno messi nel conto. Ma non su chi, condannato definitivo per associazione a delinquere di stampo mafioso e sottoposto al regime di massima sicurezza, pretende una morte dignitosa. Riina non si è mai seduto sul tavolo delle opportunità, non ha mai abbassato lo sguardo davanti a nessuna corte, non ha mai utilizzato nessuna parola per provare a dire che, magari, probabilmente, forse, aveva sbagliato qualcosa. Non è mai accaduto nessun ripensamento dal gennaio 1993 ad oggi. Sono trascorsi ben 24 anni dal suo arresto e lo Stato ancora attende che il suo sguardo muti orizzonte. La disponibilità penale di un paese avanzato non dovrebbe contemplare l’ergastolo. Ne sono consapevole e in linea di principio sono d’accordo. Ma se con il terrorismo ci sono stati passi davvero importanti, incontri tra vittime e carnefici, pause di riflessione decisive sul campo della mediazione penale, con i capi mafiosi, con chi rappresenta la criminalità organizzata non è mai accaduto. Ci sono state le collaborazioni di qualcuno che ha provato a rientrare nel recinto della normalità, ma sono casi sporadici, quasi unici. Gli uomini di mafia non parlano e amano trattare con lo Stato solo di affari che riguardano la loro stessa sopravvivenza. Mi dispiace dover dissentire totalmente da chi chiede una morte dignitosa a chi ha seminato terrore e tristezza senza mai tener conto della dignità della persona. Far morire Totò Riina in un carcere dello Stato non è una sconfitta per il paese. È una sconfitta per il detenuto che non ha saputo cogliere l’opportunità dell’articolo 27 della Costituzione: si è fatto di tutto per la sua rieducazione ma lui ha mantenuto quello sguardo chiuso e ottuso e non ha mai riconosciuto lo Stato italiano.