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Il calendario che non cammina: fine pena mai. Storie dell’Asinara.

Il calendario che non cammina: fine pena mai. Storie dell’Asinara.

Mi osserva con una certa riluttanza. Non si fida penso. Anzi, non si fida proprio. Ne sono sicuro. Per esperienza, per semplice intuizione, per la vecchia teoria dei numeri che prima o poi ritornano, per fortuna, perché comunque ogni tanto ci azzecco. Insomma, il suo sguardo è un triangolo isoscele. Non lo capisco. Eppure potrebbe sedurmi con gli occhi. Azzurri e penetranti. Ma preferisce non farlo. Non ora almeno. E poi, son convinto, non lo farebbe mai. E comunque mai con me. Con uno come me, penso. Che sono il suo grimaldello per il futuro, il suo tubetto di colore da strizzare, per dipingere quello striminzito orizzonte che vorrebbe disegnarsi.

Mi osserva come si squadra un quadro post-moderno. Con diffidenza e con la paura di non capirlo. E quindi, di non capirci. Ma qualche cosa la deve dire, penso. Gli ho fatto una domanda, una domanda aperta come direbbe la mia Professoressa. Potrebbe dire tutto e il contrario di tutto. Ma non può fare scena muta davanti ad una domanda che è un inno alla parola: “Mi chieda quello che vuole, sono qua”.

Dovrei, forse, aggiungere qualcosa, un rinforzino, un aiutino. Ma non lo faccio. Ritengo, almeno che non sia professionalmente degno dover rintuzzare quell’uomo che ho davanti. Che rappresenta, per me, qualcuno da ascoltare, da registrare e, probabilmente da vivisezionare. Ma solo per lavoro. Questo penso mentre lo sguardo vacilla tra la penna e l’infinito, tra la porta della diramazione e il calendario orribile che ho davanti. Sporco e con un mese lontano e dimenticato. Siamo a Maggio e quello segna Novembre. Non ho mai capito se sia normale questo non contare il tempo. Penso di si, in un carcere, tutto, con il tempo diventa “normale”.

Mi vede come un aguzzino,come qualcuno che tenta di rubargli la chiave dei suoi segreti. Non gli ho chiesto di parlarmi di lui, sarebbe stato faticoso, difficile da digerire, metterlo davanti a se stesso. No, può farmi qualsiasi domanda, oppure può anche dire che non ha niente da chiedere, che ha tutto, ma proprio tutto, che può permettersi anche di non rispondere perché lui, in questa galera ha un calendario diverso dal nostro. Magari è novembre e chissà di quale anno.

Non si agita. Non respira quasi. E’ un gioco sottile a chi molla per primo. La professionalità vacilla: sono sardo e non cedo. Fanculo il mestiere. Penso. E ritornano gli appunti dei milioni di giorni dei corsi di formazione e i libri e gli interventi nei dibattiti e nei convegni. Non cedo. Sardo. Duri, come granito e basalto uniti. Sardo. Come lui.

Non ci sono rumori estranei che potrebbero, in qualche maniera aiutarci. Niente. Se fossimo in un film il regista sarebbe sicuramente Sergio Leone: primo piano di Clint, primissimo piano sugli occhi, labbra che non si muovono, primo piano di Robert De Niro, primissimo piano sulle labbra e il telefono che squilla e nessuno risponde. Nessuno. Centrifughiamo gli attimi e condensiamo il sudore. Primo piano del mio sguardo quasi assente che soppesa l’attesa. Lui non tamburella neppure le dita. Sembra quasi non abbia nessun tremore, nessun piccolo sconquasso. Nessun respiro lo accompagna.

La penna vorrebbe scrivere qualcosa. Oltre al nome. L’unica cosa che so di lui. Nient’altro. Potrebbe raccontarmi molto eppure è impossibile riuscire a risalire ad un’identità. E’un cognome astratto, simile a molti altri in Sardegna: un cognome che è troppo sardo da poter essere originale. Lo hanno in troppi. Anche in quest’isola. Abusato. Utilizzato da sempre e per sempre. Insomma, inutile per capire da dove arriva, da quale zona potrebbe giungere, in quale pezzo di terra ha costruito la sua storia. E il suo reato. E, soprattutto che reato ha commesso. Una volta, un brigadiere aveva diviso i cognomi in base ai reati: non avevano nessun riscontro scientifico ma io avevo deciso di soprannominare quel Brigadiere Lombrosu, alla sarda. Piras è ladruncolo, Mereu sequestratore, Pili rapinatore, ma lo pescano sempre. E quando chiedevo il perché lui serafico rispondeva: “ma uno che si chiama Pili lo prendono sempre perché al massimo, fa il palo.” Rideva e io, sinceramente non sapevo cosa rispondere. Questo era il tempo all’Asinara. Ascoltare storie. Qualsiasi storia. Anche inutile e stupida. Ascoltare per uccidere il tempo. Ma era difficile, terribilmente difficile. Perché il tempo era come questo maledetto calendario che segnava novembre ed eravamo di maggio: non riuscivo a capire se fossimo troppo avanti o troppo indietro.

“Quando finisco?”. Questo, mi chiese. Semplicemente. Ineluttabilmente. Incredibilmente. Inaspettatamente. Domanda peraltro logica ma scivolosa. Se me lo chiede ha qualche dubbio.

“Dipende,” risposi, “se lei è definitivo dobbiamo considerare la liberazione anticipata, novanta giorni l’anno in meno, se si comporta bene, poi deve considerare la metà pena e magari, se ha un lavoro riesce ad andare in semilibertà. Insomma, dipende da quanti anni ha avuto e da quanto ne ha scontato.”

Mi guardò, come si guarda un bambino che rincorre un palloncino nel vento. Con decisa innocenza. Si alzò senza fare troppo rumore.

“Lo vede quel calendario?” disse.

“E’ sbagliato”, risposi, “dovremmo aggiornarlo”.

“No, educatore, va bene, anzi va benissimo. Io ho lo stesso calendario in cella. Con la stessa immagine. Un bambino che con la slitta scivola sulla neve. Novembre. Non lo cambio mai. Mai. Ha capito? E’ inutile cambiarlo.”
“Il tempo cammina comunque, anche in carcere” dissi, “quel calendario sbaglia, siamo a maggio e lui indica novembre”

“No, non sbaglia. E’ giusto non cambiarlo. Mi dica, in che anno siamo?”

“Nel 1986, risposi senza neppure pensarci”

“Ecco, allora, lei che è bravo e che ha studiato, mi dice come sono fatti gli anni? Anzi, questo lo so da solo arriveremo al 1987, 1988, 1989, sino al 2000 ed oltre. I calendari hanno sempre una data certa e numeri per ogni mese. Mi spiega, per cortesia quando esco? In quale benedetto calendario è stampato l’anno MAI?”

Fece un certo rumore quella parola in quella stanza assolata. Tanto rumore che non trovai le parole per rispondere. Guardai il calendario. La slitta, novembre, il bambino. Che mai si sarebbero spostati, per chi ha l’ergastolo. Mai. Sentii il mio cuore vacillare e la sicurezza fuggire. Sardo, duro, professionista.

Non riuscii neppure a stringergli la mano.

Novembre. La slitta, il bambino. Fine pena mai. Saracinesca che non si apre. Un libro che non ha un finale. Impossibile. Ero giovane. Era la prima volta che sentivo “fine pena mai”. L’avrei sentito tantissime altre volte, negli anni. Capivo la gravità del reato ma non comprendevo l’assurdità dell’ergastolo. Immaginavo, allora quel calendario sballato, assurdo, che non camminava. Fine giorno mai, fine mese mai, fine anno mai. La vita si incuneava nell’emisfero dell’Asinara. Per molti andava avanti, per alcuni si sospendeva. Per me che per mestiere ascoltava storie i giorni correvano ma capivo, riconoscevo e soppesavo la pesantezza degli anni.