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Gli ultimi sognano a colori. Arkadia editore. 2016

Gli ultimi sognano a colori. Arkadia editore. 2016

Intro.

 

È la luce che colora tutto.

Ho camminato nelle strade tortuose della vita, raccogliendo molta disperazione. Non avevo il coraggio di fermarmi, per paura che qualcuno potesse chiedermi qualcosa. Non avevo nulla da dire. Non avevo niente da fare. Avevo una manciata di sogni da spalmare. Ma non dovevo aprire gli occhi.
Erano viaggi senza poggiare i piedi, erano urla e disperazione quando, finalmente, il dolore appariva forte, vero, denso, cattivo.
Quante mani si sono fermate e mi hanno abbracciato? Non le ho contate perché non ne avevo il tempo.
Ho visto mani che respingevano, che ti davano qualcosa. Ho visto mani sottili e sinuose, mani nodose. Ho sentito mani che ti incitavano, mani che trasportavano, offrivano e abbandonavo. Tutti che correvano e salutavano. Tutti che avevano altro cui pensare. Mani che scivolavano.
Poi, quell’uomo si è fermato. All’incrocio della disperazione si è fermato. A osservare il vuoto si è fermato. E non ha parlato e non ha taciuto. Ha solo detto se mi sarebbe piaciuto mangiare con lui, solo per stare in compagnia. Ha detto questo e ha aspettato.
Non aveva fretta l’uomo. Lo si capiva da come sapeva aspettare. Ma anche da come riusciva a sorridere. Con discrezione. «Ho un male dentro», dissi. «Ma allora non è grave, basta ascoltarlo», rispose.
Fu per quel motivo che decisi di raccogliere quella mano, di provare a cancellare quell’incrocio maledetto.
Ho mangiato mille e mille volte con lui. L’ho ascoltato e riascoltato. Molte volte non ero d’accordo ma moltissime volte ero in completa sintonia con lui. Era un faro che tracciava la rotta, era la luce che raccoglieva opportunità.
Poi, di colpo accadde. Mentre avevo quasi raggiunto la cima della mia montagna, mentre potevo cominciare la discesa, mentre i colori cominciavano a inondare il mio cammino accadde.
Fu un sussulto. Paura e angoscia. Non erano più gli acidi a distruggere i miei piani, non era l’eroina ormai dimenticata. Non era la paura di abbandonare quella mano e quella voce.
Era un dolore fisico, vero, che si ritagliava uno spazio dentro il mio corpo. In quel momento, in quel preciso momento mi sono reso conto che qualcosa non aveva funzionato. Che il conto si deve prima o poi pagare. Non camminavo più. La febbre, la dissenteria, il terrore.
Nessuno capiva cosa mi stava succedendo, però tutti parlavano meno. E nessuno mi sorrideva. Tranne lui.
Veniva tutti i giorni all’ospedale, chiedeva, si informava. Aveva la consueta curiosità di dover capire. Non c’è niente da comprendere, tutto è stato deciso. Io, questo lo sentivo, ma non riuscivo a dirlo a nessuno.

Ero come un lebbroso, tutti mi trattavano con circospezione. Dovevo abbandonare, dovevo salutare tutti dentro quel dolore, quella rabbia repressa di non essere riuscito a ritornare su quella maledetta strada, di non essere riuscito a riaffacciarmi alla vita con occhi nuovi. Io non lo sapevo cosa fosse l’aids.
Ancora era troppo presto. Non c’erano le medicine, non c’era la consapevolezza.
Nessuno aveva mani da offriti su cui aggrapparti. Tranne lui. Ho capito, adesso, perché la luce colora tutto.
Perché ci sono uomini che sanno accendere gli interruttori giusti e riescono a sorriderti sempre e per sempre. Come Salvatore, le mani che son riuscite a raccogliere gli ultimi, le parole che ha regalato a quelli come me, che non avevano voce.
Questo ho capito, tra la luce e l’infinito. Non è vero che non ce l’ho fatta. Non è vero che ho fallito. Ho vissuto e ogni vita vale di essere vissuta se si ha un ideale.
Questa non è la storia di Salvatore ma è anche la mia storia e la storia di tanti altri ragazzi che hanno incontrato questo francescano in mezzo alla strada, in mezzo alla nostra vita. E ha saputo aspettare tutti, nonostante tutto.
Questa è anche la nostra storia, il racconto delle nostre sconfitte, delle nostre lacrime, della nostra nudità.
Nessuno può vincere da solo.
Nessuno pretende di vincere, ma di partecipare con dignità al cammino della vita.
Questa è la nostra storia. Nostra e di Salvatore. Perché lui non ha mai detto “io”, ha sempre ribadito “noi”. Perché lui non ha mai detto “ce la puoi fare” ma ha sempre affermato che “ce la possiamo fare”.
Ve lo dico da queste parti, dove i colori e la luce hanno altre dimensioni: Salvatore è la sintesi di tutte le spigolature della vita, è il rumore che racconta, è la giornata che raccoglie opportunità. Mi ha insegnato che la corsa degli ultimi non serve per superare ostacoli ma è utile per comprenderli.
Ho chiuso gli occhi nel silenzio della vita. E, per la prima volta, ho sognato a colori.

Marcello Marotta, ma non solo.
Perché non si è mai soli quando si cammina sulla stessa strada.