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Enea e l'ipocrisia (La Nuova Sardegna, 20 aprile 2023)

Enea e l’ipocrisia (La Nuova Sardegna, 20 aprile 2023)

Nel  recinto di Dio, patria e famiglia qualcosa scricchiola. I colori non sono così chiari, definiti, luminosi. C’è un bambino che si chiama Enea, come la figura mitologica, figlio del mortale Anchise e di  Afrodite, dea della bellezza e c’è una madre che decide, volontariamente,  di affidare  il proprio figlio alla “culla per la vita” della clinica del Policlinico di Milano insieme a poche parole: “Ciao, mi chiamo Enea, sono nato in ospedale e sono super sano”. Tutto consegnato alla moderna ruota degli esposti perché la mamma non riuscirà a garantirgli un’esistenza dignitosa. Tutti hanno ingaggiato la gara di solidarietà per Enea, tutti hanno fatto il tifo per lui, molti sperano di adottarlo, qualcuno chiede alla madre di ripensarci. E questo dramma tra qualche settimana sarà ampiamente digerito dalla masnada di costruttori di storie da sottoporre alla pancia della gente ed Enea ritornerà nel cono d’ombra che spetta di diritto ad ogni minorenne. La madre rimarrà con le tasche gonfie di lacrime e di rimorsi e tutto riprenderà a girare nel circo della normalità, quella per intenderci che vede come approdo sicuro Dio, patria e famiglia. Quante volte quella madre avrebbe voluto gridare: “sono io, sono una madre, sono cristiana, ho un figlio che amo” e, invece, quella voce rimarrà nel retro del palcoscenico della vita, in attesa di una parte in commedia che non arriverà mai. Sarebbe invece opportuno domandarsi perché una madre che ama il proprio figlio è costretta a cercare un gesto così terribile, così definitivo, così chiaro. Lo ha fatto perché non aveva altre scelte, perché non le sono state offerte altre soluzioni nel paese di “Dio patria e famiglia” non c’è posto per lei, in questo liquido fatto di persone apparentemente sorridenti, falsamente accondiscendenti  e ipocritamente definite nella mediocrità dei passaggi: non siamo quello che disegniamo, abbiamo tratti peggiori e nei nostri luoghi non c’è posto per la madre di Enea e dunque non c’è posto neppure per Enea. Fanno quasi sorridere gli appelli a questa  – credo – giovane madre: “riprenditi Enea, ti aiuteremo noi”. E dentro quel noi c’è il vuoto cosmico di una società fondata esclusivamente sull’occuparsi di se stessi e di non tenere conto degli altri. Siamo sempre capaci di costruire false lacrime davanti ai tanti Enea che ci capitano davanti, ai bambini sui barconi, quelli morti (meglio, uccisi) e quelli che sopravvivono. Siamo sempre ben disposti a giustificare i ragazzini del carcere minorile nella fortunata serie televisiva “mare fuori” ma, subito, storciamo il naso quando Dio va, per conto del pontefice, a lavare i piedi a quegli ultimi e qualcuno dice sottovoce: “poteva risparmiarselo”, come se Dio è fatto solo a nostra immagine e somiglianza e come se la patria sia solo quella del suol natio e non di chi questa terra la tocca e ci vive per anni. Enea è il paradigma di tutti i nostri abbandoni: gli ultimi ci interessano solo ed esclusivamente per piccole narrazioni, come un lieve contorno alla vita di tutti i giorni. Storie come quelle di Enea sono, invece, all’ordine del giorno: hanno i volti dei dimenticati nelle lettighe del pronto soccorso, nelle file della mensa Caritas, nelle prigioni, negli sguardi senza lacrime dei disoccupati. Tutti invisibili, tutti buoni solo per un giro di opinioni sui social, qualche mi piace, un cuoricino, qualche abbraccio. Poi le luci si spengono. Enea avrà quasi sicuramente una famiglia che lo accudirà e per lui  sarà un’ottima opportunità. Enea, figlio di Anchise e di Afrodite, troverà probabilmente la strada verso la bellezza. A perdere sarà non sua madre e il suo ipotetico ripensamento,  ma noi che abbiamo detto con voce appartenente ferma e risoluta: “Riprenditi Enea, ci pensiamo noi”. Non è vero, conosciamo la nostra mediocrità e il nostro nulla. Ha ragione la mamma di Enea: siamo noi i veri colpevoli, incapaci di occuparci, davvero, di tutti gli Enea sparsi per il paese. Di questo dovremmo discutere e non lo facciamo.