Menu
Dove eravamo quando l'orrore camminava dentro la terra? (La Nuova Sardegna, 8 aprile 2017)

Dove eravamo quando l’orrore camminava dentro la terra? (La Nuova Sardegna, 8 aprile 2017)

Dove eravamo il 6 aprile del 2009 quando la notte raccoglieva il rumore della disperazione e decideva, senza dare nessuna spiegazione, di ridisegnare il cuore dell’Italia?
Dove eravamo quando un’intera città veniva sventrata, risucchiata, violentata e offesa, dove tutte le cose costruire negli anni dagli uomini venivano irrimediabilmente compromesse, pasticciate, rimescolate con le lacrime e il terrore?
Dove eravamo quando 309 uomini ci lasciarono, 1600 furono feriti e ci furono 65.000 sfollati? Come li abbiamo contati quei morti di undici nazioni diverse: italiani, macedoni, romeni, cechi, palestinesi, ucraini, francesi, greci, israeliani, argentini e peruviani?
Che colore avevano e che peso le loro anime?
In quale tasca della memoria abbiamo dimenticato Giovanna che il giorno successivo doveva far nascere Giorgia e che, invece, è rimasta per sempre imprigionata dentro un terremoto che ha sconvolto la sua regione, accompagnata dalla madre dentro il buio di una vita mai conosciuta, di un disegno mai abbozzato, di una linea mai cominciata.
Dove eravamo quando da quelle pietre che parevano piramidi costruite da architetti folli, tra la polvere e l’agonia rinascevano Maria ed Elena ,  rispettivamente di  24  e 21 anni, studentesse di ingegneria, salvate dopo 23 ore di polvere e silenzio, oppure Maria che con il suoi 98 anni decise che c’era ancora tempo per raccogliere il sole e le nuvole di un tempo che pareva finito.
Eravamo lì, muti, a raccogliere le parole smorzate di chi provava con le mani a cercare, a frugare tra le scaglie della vita. Eravamo negli occhi di quei studenti che tra i libri, i portatili, le penne e gli appunti avevano scommesso su come camminare da quelle parti a costruire ponti, a decantare poeti, a giocare tra le frazioni e le parentesi quadre e tonde.
Eravamo con l’orrore e lo sgomento, con le stesse facce che avevamo usato quando in Friuli nel 1976 erano stati cancellati interi paesi, come in Irpinia nel 1980.
Tutto nel buio della notte.
Perché tutto deve essere più lungo e più doloroso. Questa volta la terra riuscì a sgretolare la città dell’Aquila alle 3.32 del mattino. Lo scoprimmo solo quando il sole cominciava a ridisegnare i contorni e scoprimmo di essere tutti terribilmente più soli. Gli occhi dei bambini, le coperte, le nottate in auto, i primi soccorsi, gli alberghi ed un futuro tutto da immaginare. Le casette di legno, la ricostruzione, le promesse dei politici, la speranza degli sfollati, l’indignazione dei molti davanti alle risate di alcuni che quella notte videro quelle macerie come un grande affare.
Dove eravamo quando tutto si scoprì, quando quei sorrisi divennero vergogna, quelle telefonate sarcastiche divennero rabbia e ira. Noi non ridevamo dicemmo a gran voce ed insieme a noi la maggior parte di un paese sano, pulito, solo incattivito dagli eventi.
Eravamo con la voce roca che non riuscivamo più neppure a protestare, a rintuzzare, a dissentire da quella politica che presentava quelle casette in legno con tanto di frigorifero e spumante come un grande sogno americano.
Eravamo e siamo ancora qui, dopo otto lunghi anni, a camminare nel silenzio eterno di una città svuotata dove la memoria non esiste più. L’Aquila è un fantasma che vaga nelle coscienze di tutti: di chi doveva decidere, di chi doveva comprendere, di chi doveva organizzare, pianificare, investire, rimettere in sesto, ricostruire. Tutte cose che in otto lunghi anni non sono state terminate. Alcuni passaggi non sono neppure cominciati.
E noi? Dove eravamo e dove siamo noi?
Dentro quelle macerie, quelle pietre pesanti che non ci fanno camminare.
Siamo qui, attoniti, senza voler ammettere che anche dietro un terremoto, dietro quei 309 morti c’è posto per la corruzione. Abbiamo in mano la tenda del sipario e ci vergogniamo ad abbassarla.