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Con gli occhi del carnefice (La Nuova Sardegna, 17/05/2015)

Con gli occhi del carnefice (La Nuova Sardegna, 17/05/2015)

Editoriale apparso sulla Nuova Sardegna 17/05/2015

Da piccolo, come tutti i bambini, smontavo i giocattoli. Volevo capire – credo – come funzionassero, quali fossero gli ingranaggi, come potessero, per esempio, camminare da soli. Crescendo ho mantenuto nei confronti del mondo e degli uomini questa curiosità. In fondo ho scelto un mestiere che mi porta a scardinare i pensieri e prova a rimodellare le storie. Quello che provo a fare, quando accadono fatti che scuotono le coscienze non è solo e semplicemente guardarmi intorno, perché quell’intorno potrebbe essere fuorviante, ma provo a smontare “il giocattolo sociale”: provo, in qualche modo, a guardare con gli occhi del carnefice. Che non è mai semplice e non è neppure banale. Provate, per esempio ad osservare la scena dalla parte del violentatore della tassista o dell’assassino di Gianluca, il ragazzo di Orune, provate a osservare gli attimi di puro terrore imbracciando un fucile a pompa, così come ha fatto l’infermiere che a Napoli ha ucciso quattro persone e ne ha ferite sei. Perché disegnare queste realtà semplicemente nel loro tessuto sociale rischia di non funzionare più e si finisce per giocare all’interno di semplici stereotipi. Napoli è una città in lotta con la criminalità organizzata. Quella strage, dunque, è figlia di quel mondo? Assolutamente no. Siamo davanti ad un infermiere considerato una persona normale, autorizzato a detenere delle armi per uso sportivo, che uccide il fratello e la cognata, pare per una banale lite sui panni da stendere. L’omicidio, non è mai banale: l’acting-out , il giocare con le azioni in maniera emotiva piuttosto che con le parole, è un processo molto complesso che giunge al suo epilogo per qualcosa di apparentemente “piccolo” ma che, in realtà è maturato nel tempo e solo la scelta finale sembra essere immotivata o abnorme. Non c’entra il degrado sociale nell’atto compiuto dal ragazzo romano (e non rumeno) che violenta la tassista, come non c’entra il “codice barbaricino” nel delitto di Orune e nessuno spazio al fenomeno della camorra si può attribuire alla strage di Napoli a Capodimonte. Tutto questo , insieme al carabiniere che in Calabria uccide la moglie e poi si suicida, alla madre albanese che a Lecco uccide i suoi tre figli deve avere, necessariamente, altre letture non solo e non esclusivamente “sociali”.
Siamo all’interno di un mondo pieno di parole e di immagini, ma solo virtuale. Comunichiamo per tweet ma, in realtà non parliamo. Abbiamo costruito, nel tempo, la desertificazione degli incontri, non stringiamo più le mani e non ci sediamo più in un tavolo rotondo ma, piuttosto, continuiamo a sopravvivere negli spigoli di un tavolo rettangolare e lunghissimo. Seppure siamo sempre connessi con le nostre parole e le faccine “emoticon”, non parliamo e non abbracciamo più nessuno. Viviamo nel nostro acquario personale, bello e colorato dove non c’è spazio per il confronto e per la risoluzione del conflitto. In un mondo dove tutti siamo portati a mettere “mi piace” è chiaro che qualcosa non funziona: non è un mondo reale. E quando ci troviamo davanti, quando riusciamo, finalmente a guardarci in faccia, non siamo più in grado di gestire il conflitto. Una volta, nelle famiglie e nei gruppi, esistevano le contrapposizioni. I ragazzi erano abituati a sentirsi dire “no”. Oggi, al massimo si dice “vediamo” o, addirittura si acconsente senza troppe discussioni. I genitori parlano con i figli con WhatsApp. Non servono più le parole. Come ripartire? Gli occhi del carnefice sono terribili, è vero. Ma non fermiamoci alla fotografia iniziale. Proviamo, come si faceva con i giocattoli, ad entrare nel loro strano modo di vedere le cose e scopriremo che non è così lontano dal nostro. Non meravigliamoci delle cose che, comunque abbiamo partecipato a costruire: nel deserto non c’è acqua ed è quindi inutile scavare.