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C'era una volta la globalizzazione. (La Nuova Sardegna, 4 aprile 2017)

C’era una volta la globalizzazione. (La Nuova Sardegna, 4 aprile 2017)

Ditemi che sono all’antica ma il mio punto di vista è solo legato a semplici passaggi che abbiamo vissuto e sono nascosti nei cassetti dell’infanzia e riaffiorano forse per amore, per passione o, più semplicemente perché hanno odori e sapori che non ritroviamo più.
Il presidente Trump ha minacciato di tassare alcuni prodotti europei. Una sorta di vendetta pare contro i patti non rispettati circa l’acquisto di carne decisa in un accordo con W. Bush.
Sono cose complesse e difficili da capire. Sono cose che riguardano l’economia mondiale e il business. Sono cose che, sinceramente, ho sempre avuto molta difficoltà a riportare nella tavola semplice dei miei ragionamenti. Però questo strano gioco rischia di bloccare anche molti prodotti sardi che in America avevano trovato un mercato interessante.
Gli statunitensi amano il pecorino sardo, sono interessati ai nostri vini e al nostro olio. Non tutti. Stiamo parlando di persone che “se lo possono permettere” e che, probabilmente potrebbero anche sopportare il dazio eventualmente imposto da Trump. Ma non è questo il punto.
Oscar Farinetti, fondatore di Eataly esporta nei negozi degli Stati Uniti metà del suo fatturato. In un’intervista rilasciata a Paolo Griseri su Repubblica ha dichiarato, tra le altre interessanti cose che: “finiremmo in un mondo senza diversità: ognuno mangia solo ciò che coltiva e alleva i suoi terreni. Come nel medioevo”.
Mi sono fermato e ho provato a capire perché Farinetti ha detto questo e ho trovato una sola risposta: semplicemente per puro interesse. Per business.
In questi ultimi anni abbiamo discusso moltissimo sulla qualità dell’alimentazione, sulla carne e verdura prodotta con OGM e abbiamo combattuto questa globalizzazione sbagliata che ci ha costretto a mangiare e consumare prodotti che non sono proprio vicino alla nostra cultura e alla nostra terra. Farinetti, d’altronde, ci ha sempre insegnato che dobbiamo puntare sulla qualità del cibo, ne ha fatto il suo campo di battaglia e io mi sono trovato terribilmente d’accordo con lui. Quando Farinetti parlava di cultura del cibo pensavo alla zuppa gallurese, alle “acciuleddi” all’abba mela, i papassini, i pirichitti, lu ghisaddu, solo per ricordare alcuni dei nostri pasti e dolci con i quali ho condito la mia dolcissima e lentissima infanzia. Nulla a che fare con “cheeseburger” “fishes and chips” ed altre stranissime diavolerie che nel corso degli anni siamo stati costretti ad assaggiare perché era interessante la diversità.
Sono un modesto viaggiatore e quando visito i paesi lontani sono molto curioso e disposto ad assaggiare i cibi del luogo: è quasi un impegno. Ho mangiato zuppe bulgare, carne polacca, pesce cucinato nelle isole di Bali, dolci speziati egiziani e, ammetto, erano e sono molto diversi dai nostri sapori. Però, personalmente al Mc Donald non ci vado. Alla Coca Cola preferisco il vino (e anche la mitica gazzosa) non sopporto il sushi che si presenta in ristoranti giapponesi simili a catene di montaggio e preferisco la mortadella con la focaccia calda. Probabilmente sbaglio e certamente la globalizzazione ha lati assolutamente positivi, ma amare i ricci mangiati sugli scogli di Alghero rispetto a dei big wurstel prodotti a Colonia non mi fa sentire medievale.
Abbiamo scommesso negli ultimi anni sulla bellezza dei prodotti a Km. Zero, non possiamo, solo per paura del dazio, prendercela con Trump perché vieta l’importazione del pecorino sardo.
Capisco che l’argomento è difficile ma con un bicchiere di Cagnulari e qualche dolce sardo magari capiamo che dovremmo incrementare la vendita dei nostri prodotti proprio sull’isola e rifiutare di presentare nei nostri ristoranti cassate, zuppe inglesi e cotolette milanesi.