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Caino e la famiglia.

Caino e la famiglia.

Il 21 febbraio del 2001 sprofondammo in un buio atroce. Toccammo Caino con mano e riuscimmo a comprenderne la ferocia. Credemmo, quel 21 febbraio 2001, che gli assassini fossero albanesi e molti politici decisero di organizzare manifestazioni di protesta in tutta Italia contro gli immigrati in generale. Una donna ed un bambino uccisi contro troppe coltellate: 40 coltellate per Susy Cassini e addirittura 57 per il giovane Gianluca. Una mattanza, una carneficina che neppure nei peggiori film splatter. Un incubo che portò ad un fermo di un povero albanese scarcerato subito dopo in quanto, per sua fortuna, aveva un  un alibi sicuro. Tutto quel giorno era nero come le anime nere e rosso come il sangue di due vittime innocenti. Il giorno successivo si scopri che ad uccidere Susy e Gianluca erano stati sua figlia Erika insieme al suo fidanzato Omar. Avevano rispettivamente sedici e diciassette anni. Fu il delitto che sconvolse le coscienze, che ci aprì le porte di un universo familiare, quella famiglia tanto decantata e da proteggere era diventata, in questo proscenio, la peggiore delle scelte. Sono passati 23 anni e i due assassini hanno concluso l’esperienza detentiva. Entrambi conobbero gli istituti penali per minori: Erika con un condanna  a 16 anni e Omar a 14. Il ragazzo venne scarcerato nel 2010 e Erika l’anno successivo. Ricostruire queste vite non è stato semplice come è stato difficile dimenticare per tutti questi oscuri passaggi. Si è detto e si è scritto molto. Si è parlato di futili motivi, di rabbia repressa, di distacco dalla realtà. I percorsi educativi sono sempre difficili. Ciò che si può trarre fuori dai processi di iniziazione contrastano con quanto accade nei contatti con l’esterno. Quel buio, quel baratro, quel nero livido che ci accolse quel 21 febbraio 2001 non ci permise di comprendere. Sono passati troppi anni ma le ferite rimangono. Dovremmo ragionare meglio sul concetto di educazione, sulle solitudini dei minori, sui baratri dell’anima, dovremmo imparare ad ascoltare i silenzi degli uomini anziché soffermarci sui rumori che fanno da corollario ad un mondo sempre più vile, più cinico, più artificiale. Io Erika e Omar me li ricordo. Come una ferita che sanguina, come una sconfitta. Quel Caino che cammina sempre al nostro fianco, che ascolta e non risponde. Quel Caino che respira come noi, sorride come noi, piange come noi. Poi, però, prende altre decisioni. Dobbiamo lavorare sulle diverse scelte, sul perché davanti ad un bivio ci dividiamo. Dovremmo suggerire la strada a chi non ha la bussola o non la vuole usare. Chiudere gli occhi e dar finta che nelle nostre famiglie tutto funziona perfettamente  non è una grande soluzione. E gli albanesi o gli altri immigrati poco c’entrano con le voragini delle nostre storie e dei nostri affetti.