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Asinara, isola da ricordare

Da Le Due Città del marzo 2003

Asinara, isola da ricordare

Esistono luoghi che sono stati teatro di storie allegre e tristi vissute da persone relegate ai confini del mondo sociale. Luoghi fisici ormai abbandonati perché il tempo li ha superati, luoghi della memoria per chi ci ha vissuto.
L’isola di Asinara, con i suoi edifici penitenziari vuoti, costruiti vicino ad altri edifici più remoti e diroccati, un tempo destinati a lazzaretto, con le abitazioni degli agenti e di tutte le altre persone che si sono trovate a doversi trasferire sull’isola per lavoro, è uno di quei luoghi della memoria, ora destinato ad essere un parco naturale.
Nel suo secondo libro sull’isola-carcere, Giampaolo Cassitta, ritorna idealmente all’Asinara per dare voce a un narratore che ha vissuto sull’isola dal 1965 fino alla chiusura del penitenziario. L’io narrante del libro è infatti un Brigadiere, il Brigadiere Spanu, oggi Ispettore di Polizia Penitenziaria ad Alghero, che all’Asinara approdò come agente all’età di 23 anni e che con Cassitta, educatore nel carcere, ha condiviso una condizione umana che ha dell’eccezionale.

Nessun altro luogo come una piccola isola, infatti, può rappresentare simbolicamente temi diversi come la costrizione, la prigione, il ritorno alla natura, il viaggio interiore dell’uomo, l’intensità e il bisogno dei rapporti affettivi, il tempo fermo, l’astoricità e l’isolamento sociale, i confini invalicabili e infine il ritorno e la crescita dopo l’addio al luogo che ha nutrito e accolto nonostante la non-scelta di abitarlo. Si pensi all’Isola misteriosa di Verne, elogio dell’homo faber, a Robinson Crusoe, all’Isola di Arturo di Elsa Morante con il tempo fermo di un’infanzia lasciata a se stessa, o al recente Cast away. Si trova sempre una scoperta “interiore”, una scoperta di se stessi e della natura, di se stessi con gli altri, delle proprie capacità, in una dimensione estrema e caratterizzata dalla messa alla prova.

Nella Premessa del libro Cassitta dichiara che intende raccontare le piccole storie di gente dimenticata, che è esistita ma della cui esistenza non si parla mai nella Storia con la S maiuscola, che esiste e incarna qualcosa di universale che ha tutto il diritto di essere tratto dall’abbandono. Queste storie, vissute dal Brigadiere a volte in prima persona, a volte molto da vicino, raccontate nelle lunghe sere invernali davanti al fuoco, quando l’ultima pilotina era partita e l’isola era veramente “isolata”, sono narrate nel libro insieme ai ricordi di un lavoro e di una vita trascorsi ai confini del mondo. Solo due delle storie sono parte della memoria personale di Cassitta.
Ogni racconto è preceduto da una citazione in epigrafe che orienta nella lettura e rivela un amore profondo per la scrittura e la letteratura. Lo stesso amore che nell’episodio Il brigadiere e il professore porta il narratore a interrogarsi su Emilio Lussu e la guerra dei generali contro i soldati durante il massacro della Grande Guerra, sul significato della disciplina militare.

Molti degli episodi raccontati sono accaduti negli anni ’60 e ’70, prima della riforma e della legge Gozzini. Le fotografie in bianco e nero che arricchiscono il libro sono un documento di come era l’isola e di come vi vivevano i detenuti, gli agenti e le altre persone che lavoravano nel penitenziario e che in molti casi avevano portato con sé la famiglia. Altri episodi sono più recenti e toccano il periodo tragico della presenza dei brigatisti rossi a Fornelli e della loro identificazione degli agenti come nemici da distruggere.

Del narratore, si rivela l’amore per una terra su cui è approdato per caso e di cui non conosceva l’esistenza; si rivela la capacità di provare soddisfazione per un lavoro tecnico, manuale, ben riuscito (si veda la costruzione della foresteria o del campanile); la capacità di comunicare tale soddisfazione ai detenuti che lavorano con lui, uniti nell’impegno della realizzazione di qualcosa di veramente importante; la capacità di ascolto della sofferenza della detenzione; la lealtà e il rispetto della dignità dei detenuti.

Si percepisce anche la comprensione bonaria delle piccole furbizie, o espedienti, messi in atto dai condannati, della loro allegra vitalità. Si sente nel narratore la capacità di identificarsi, di capire e di accettare le diversità, senza lasciarsi coinvolgere, restando capace di cogliere la profonda umanità di certi comportamenti e di provare un sentimento di ottimismo.

I racconti parlano della vita e, purtroppo, anche della morte sull’isola, della sfida alle condizioni proibitive del mare quando soffiava il levante e si trattava di salvare qualcuno, della reclusione degli stessi agenti sull’isola e di stratagemmi ingegnosi per sopravvivere all’isolamento doloroso, del rispetto delle regole del gioco e della solidarietà: si veda l’episodio del detenuto che, pur potendo approfittare di una situazione favorevole alla sua fuga, decide di soccorrere l’agente che è svenuto e riporta il moschetto al capodiramazione.
La fuga vista come fantasia necessaria alla mente, come diritto dei detenuti nel gioco dei ruoli con gli agenti.

E poi il lavoro. Il lavoro all’Asinara era ciò che rendeva quel carcere molto diverso da tanti altri carceri d’Italia: a lungo si narra dei detenuti “sconsegnati” che trascorrevano la loro giornata liberi di girare per l’isola pascolando gli animali o coltivando la terra, di cucinare il loro cibo negli ovili, di amare e curare le bestie, di stabilire l’antico rapporto gratificante che lega l’uomo agli animali domestici. Tutto ciò non sarebbe stato possibile in un carcere di cemento e ferro, uno di quei carceri che sono stati costruiti nelle zone periferiche delle città. E all’amore per la terra e i suoi frutti, all’amore per gli animali, condiviso da detenuti e non, i racconti lasciano molto spazio.

La prigionia diventa lentamente, oltre che il tempo della sofferenza, il tempo dell’amore verso la natura e l’alternarsi delle stagioni.
La grande consolazione che le piante, gli animali, il mare, il semplice guardare il mare, regalano a tutti gli esseri umani ha avuto una parte importante per le persone che per diverse ragioni si sono trovate all’Asinara. Non a caso, il carcere più afflittivo, il carcere borbonico di Santo Stefano di fronte a Ventotene, aveva struttura circolare e le finestre delle celle erano rivolte non verso il mare e l’orizzonte, bensì verso la piazza d’armi interna, dove venivano eseguite le pene corporali e le condanne a morte.

Il momento della partenza dall’isola, per ritornare al mondo più vasto, è il momento della nostalgia o del vuoto: in uno spazio limitato e isolato – quale è qualsiasi carcere, e quello sull’Asinara in particolare, definito “acquario umano” – i rapporti umani sono per forza intensi e significativi. Ci si finisce quasi per caso, ma ci si deve restare. I compagni non si scelgono, ma si troveranno degli amici che mai si sarebbe pensato di trovare “fuori”. Si pensa sempre a come fare per andarsene, ma l’isola lascerà un segno dentro, un vuoto e una nostalgia.

Lo stile della narrazione è a volte poetico e rappresenta perfettamente gli stati d’animo, come l’esasperazione dei detenuti, la rabbia, la paura degli agenti durante la rivolta di Fornelli al tempo delle Brigate Rosse, l’entusiasmo e il riscatto di una vita disgraziata per un gol segnato da un detenuto durante una partita con una squadra di calcio vera. Altre volte è la ripetitività dei gesti ad essere rispecchiata nella ripetitività delle parole.

Alla fine della lettura ci si accorge che alcune domande nascono da molti racconti e si impongono all’attenzione: anzitutto, ci si domanda, come dovrebbe essere un processo penale? Infatti, la storia del detenuto Salenti raccontata nell’episodio Una condanna annunciata, fa riflettere su come sia vissuta una sentenza da parte di una persona che non si sente colpevole, che non capisce il significato della condanna, quando i giudici si limitano ad applicare gli articoli del codice senza ascoltare o capire o interpellare nel giusto modo. Come si deve parlare ad un uomo perché prenda coscienza della sua responsabilità? E come si fa a punire un uomo per i suoi comportamenti senza distruggere ciò che di positivo c’è in lui e il suo legame con il mondo? Il carattere mite e tollerante del narratore, anche disponibile all’umorismo, sembra un modo per cavalcare le onde e l’isola su cui arriva il naufrago-detenuto o il naufrago-agente, più o meno accogliente a seconda delle condizioni del naufragio, permette di ambientarsi con sentimenti ambivalenti e, tramontata l’illusione della fuga, dopo la partenza sarà dimenticata non senza nostalgia.