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In carcere il postino suona molte volte (La Nuova Sardegna, 25 marzo 2017)

In carcere il postino suona molte volte (La Nuova Sardegna, 25 marzo 2017)

Il postino suonava sempre due volte. Oggi non passa quasi più a depositare lettere dentro la nostra cassetta dove, in tempi di internet, non ci sono neppure più le famose cartoline pubblicitarie che annunciavano chissà quale vittoria o viaggio fantastico. Segno dei tempi e tempo di mail. Ci si scambiano notizie in maniera velocissima e pasticciata: pare ci sia uno studio che analizza tutto questa bulimia da informazione evidenziando che ben il 40% della mail viene gettato nel cestino senza neppure essere letto e moltissime notizie vengono irrimediabilmente perdute, tanto che ormai esistono mail che chiedono di rispedire nuove mail.
Un girone dantesco.
L’altro giorno in ufficio si è interrotta la linea internet e per molte ore non si è potuto comunicare con nessuno. Niente mail, niente posta certificata, niente messaggistica chat e neppure videoconferenza. Niente. Per disperazione qualcuno ha addirittura richiesto l’invio di un documento via fax perché non poteva resistere senza poter ricevere nulla. Eppure, proprio grazie a questo improvviso black-out informatico, ho constatato che, a ben vedere, il mio luogo di lavoro ha solo un contorno velocissimo e al passo coi tempi ma al suo interno tutto si muove con estrema lentezza.
In carcere non esiste internet e i detenuti non possono utilizzare cellulari o computer tranne chi, per motivi di studio, è autorizzato all’uso di personal computer accuratamente e legalmente manomessi, privi di porte usb e collegamenti internet: computer che sono delle semplici macchine da scrivere. In carcere però la vita cammina così come camminava nel resto del mondo sino alla fine degli anni ottanta quando apparirono i primi cellulari con il sistema “tacs”.
In carcere il tempo si è come fermato a quegli anni e i detenuti per comunicare con i loro familiari e amici, oltre alla telefonata settimanale e al colloquio visivo, continuano a rivolgersi al vecchio e inossidabile postino: scrivono lettere. È quasi commovente pensare che ci siano oggi persone disposte ad utilizzare il vecchio mezzo della scrittura a mano e consegnare la loro lettera ad una cassetta rossa, (quasi sparite in tutte le città) un sacco di iuta grigio con la scritta “poste italiane”, qualche treno o aereo (una volta c’era addirittura la posta aerea e si utilizzava una busta particolare con bordi rossi e blu) e fidarsi del postino che recapitava il tutto al destinatario.
Tutti i detenuti (e quindi quasi 50.000 individui) utilizzano ancora questo antico metodo. Lo fanno con amore e passione, lo fanno con costanza e pazienza quasi certosina. Scrivono alle proprie mamme, mogli, figli. Scrivono ai propri amici e raccontano le loro giornate da “galera”, inviano abbracci e disegni addolciti da qualche poesia con uno sfondo quasi sempre triste. A volte si dilettano in racconti, attendono le fotografie che appenderanno sopra il letto delle loro celle e passeranno i giorni a contemplarle attendendone delle nuove.
Il tempo, in carcere, è un concetto che di fatto non esiste. Gli attimi non sono contemplati e la bolla che avvolge il tutto è la perenne attesa. Il postino, in carcere, è rappresentato da un agente che passa quotidianamente all’interno delle sezioni e chiama per nome chi ha ricevuto qualcosa. È uno dei momenti sociali più alti e più veri perché quelle lettere rappresentano il contatto con l’esterno, con la famiglia, con la vita.
Quando, dopo molte ore, è stato ripristinato il guasto,  i computer degli uffici hanno cominciato in splendido silenzio a ricevere la posta e tutti hanno potuto riallacciare i rapporti con la rete. Ho atteso che le mail arrivassero e ho cominciato a rispondere. Il sangue rifluiva nelle vene virtuali.
Ma la vita, forse, è anche cosa altra.

Articolo apparso sul quotidiano La Nuova Sardegna – 25 marzo 2017