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I delitti e le pene

I delitti e le pene

Provo a rispondere a Marco Travaglio, che nel suo editoriale pubblicato oggi su Il Fatto Quotidiano confessa una grave lacuna: dice di non riuscire a capire perché un condannato per gravi delitti debba poter uscire, con largo anticipo, grazie a permessi o misure alternative.

Capisco che il direttore del Fatto stia giocando con la retorica, e che intenda fare leva su una risposta immediata che molti lettori si sentiranno di dare: “Non lo capisco neppure io”.
Ma un bravo giornalista – e Travaglio lo è – sa benissimo che a quella domanda esiste una risposta semplice e fondata: lo prevede l’ordinamento penitenziario.

Così come sa che, quando si parla di certezza della pena, non ci si riferisce alla certezza della reclusione nel senso letterale.
Non è vero che un condannato debba restare in carcere fino all’ultimo giorno previsto dalla sentenza. Da tempo, il nostro ordinamento prevede la flessibilità della pena, che significa una cosa molto chiara: una parte della condanna deve essere scontata in carcere, ma un’altra parte, a precise condizioni, può essere espiata in forme diverse.
La “certezza” riguarda gli anni inflitti dalla condanna, non necessariamente il carcere in sé.

Travaglio insiste sull’idea che la pena abbia una funzione deterrente, e afferma che “il carcere” sarebbe l’unico vero strumento per dissuadere chi ha sbagliato dal riprovarci.
Sa bene però che il tasso di recidiva è molto più alto tra chi sconta tutta la pena esclusivamente in carcere, mentre cala sensibilmente per chi viene coinvolto in percorsi di rieducazione e reinserimento sociale.

Travaglio poi se la prende con i “garantisti” che ricordano proprio questi dati, accusandoli di minimizzare. Ma si tratta di numeri, non di opinioni.
E giocare con la pancia del lettore è facile, anzi: Travaglio lo fa con grande abilità.
Avrebbe potuto aggiungere – ma non lo ha fatto – che forse si aspetta una stretta definitiva sulle misure alternative. Che quei 60.000 condannati oggi impegnati in percorsi di pena al di fuori delle mura penitenziarie dovrebbero tornare tutti dietro le sbarre.

Questo significherebbe trovarsi con oltre 100.000 persone recluse in strutture che, al massimo, possono ospitarne 50.000.
Ma questo aspetto scompare, forse per lasciare spazio al consenso facile, al “qui e ora” della rabbia.

E allora chiedo a Travaglio – che, ripeto, considero un giornalista di valore –:
Davvero pensiamo sia necessario chiudere ogni spiraglio?
Davvero il dibattito sulla pena deve ridursi a “carcere sì o carcere no”?
Davvero vogliamo tornare a un’impostazione punitiva degna del Codice Rocco?
Davvero siamo pronti a correre il rischio di una nuova, terribile crisi all’interno dei nostri penitenziari?

Perché per un detenuto che sbaglia, non possiamo condannarne dieci.
Questo sì, sarebbe un errore imperdonabile.

Non credo che Travaglio volesse dire tutto questo. Apprezzo molti editoriali pungenti e interessanti. Il tono di queste riflessioni non mi è piaciuto. Forse, a questo punto è il momento di riflettere, di non semplificare una materia complessa, che tocca la dignità delle persone e che deve tenere insieme il rispetto per le vittime e l’impegno quotidiano di chi, dentro e fuori le carceri, lavora per restituire senso alla pena.

Se un politico ruba, non tutti i politici sono ladri.
Se un agente sbaglia, non tutti i poliziotti sono violenti.
Se un uomo uccide, non tutti gli uomini sono assassini.

Il carcere deve essere un passaggio, non un destino. Deve servire a far crescere, come individui e come società.
È un male necessario, ma temporaneo.
Se fosse definitivo, saremmo uno Stato vendicativo.
E la vendetta non costruisce futuro.