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Sentenza

Sentenza

Parafrasando il filosofo Massimo Cacciari — quello della Gialappa’s Band — “lo dicevo da anni” che era difficile, se non impossibile, credere alla versione offerta dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, quando divulgò informazioni classificate, creando — parole testuali dei giudici — un “concreto pericolo per la tutela e l’efficacia della prevenzione e repressione della criminalità”.
Lo hanno scritto nero su bianco i magistrati nella sentenza di condanna a otto mesi di reclusione emessa il 20 febbraio scorso. Nelle motivazioni emerge chiaramente un punto: non è credibile che Delmastro abbia agito per “leggerezza, superficialità” o, peggio ancora, per ignoranza.
Delmastro non è un cittadino qualsiasi. È laureato in giurisprudenza, avvocato penalista, parlamentare di lungo corso e, dettaglio non irrilevante, sottosegretario alla Giustizia con delega agli istituti di pena. Insomma, uno che dovrebbe conoscere bene le parole “riservatezza” e “sicurezza istituzionale”. Aveva provato a difendersi raccontando di possedere una “memoria prodigiosa”. Ma i giudici non gli hanno creduto, anche perché le informazioni che divulgò, riferite ai colloqui tra alcuni detenuti e parlamentari, furono riportate, scrivono i giudici, “con termini e modi così precisi da consentirne una riproduzione letterale parola per parola”. Altro che ricordo mnemonico.
C’è però un aspetto ancora più inquietante: la sicurezza.
Divulgando quanto captato dalla polizia penitenziaria all’interno del carcere di Bancali, a Sassari, il sottosegretario ha messo a rischio l’operato — e l’incolumità — degli agenti coinvolti in attività di sorveglianza delicatissime, svolte sotto copertura. Quelle intercettazioni dovevano restare riservate. Invece sono finite persino in Parlamento, attraverso il suo collega Giovanni Donzelli.
I giudici sono espliciti: “il percorso delle carte trasmesse a Delmastro era disseminato di alert sulla delicatezza e la riservatezza delle informazioni contenute”.
Non si trattava dunque di una svista, ma di un comportamento consapevole e irresponsabile.
Lo diciamo da anni — e continueremo a dirlo — che le carceri italiane avrebbero bisogno di ben altra governance. Di competenza, di equilibrio, e soprattutto di una cultura istituzionale che sappia distinguere il dovere dalla propaganda.
Attendiamo, certo, l’esito dell’appello e Delmastro resta innocente sino a sentenza definitiva. Resta però l’amarezza di un Paese in cui la sicurezza viene spesso usata come parola d’ordine, salvo poi calpestarla nei fatti.
E resta, soprattutto, una domanda: chi tutela davvero lo Stato, se lo Stato stesso si permette di tradire i suoi segreti più delicati?

19:15 , 22 Maggio 2025 Commenti disabilitati su Sentenza