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Il rumore e il silenzio di Orune (La Nuova Sardegna, 10 maggio 2015)

Il rumore e il silenzio di Orune (La Nuova Sardegna, 10 maggio 2015)

Quando tutto questo sarà concluso, quando saremo passati tutti dal cancello del dolore, potremo provare a capire, potremo cominciare ad analizzare perché si uccide un ragazzino. Nel mondo animale siamo gli unici a non rispettare i propri cuccioli e questo la dice lunga sul tasso di appiattimento e di degrado sociale nel quale siamo sprofondati, quasi senza rendercene conto. Ormai siamo immuni a qualsiasi tragedia, riusciamo ad assorbire tutto ma, soprattutto, qualcuno di noi, del nostro recinto sociale, tranquillamente uccide con apparente spavalderia, con terribile facilità, un ragazzo che si è appena affacciato alla vita. Il problema non è Orune e i suoi abitanti, sarebbe fuorviante e semplicistico, il problema è l’ostentazione della forza bruta, volere a tutti i costi uccidere le parole, il dialogo, la possibilità di poter discutere, anche animatamente, come dovrebbe essere normale tra uomini, ragazzi compresi. Perché non è pensabile, davvero, che tutto nasca da una vendetta ai fini passionali, peraltro labile e insulsa: Gianluca pare abbia difeso la sua ragazza da qualche stupido giovanotto, in maniera anche veemente. La passione però, in questo caso, è di Gianluca e non di chi ha sparato a bruciapelo senza neppure guardarlo negli occhi, senza neppure concedere una minima possibilità. In questa società, dove tutto corre veloce, c’è sempre posto per i vigliacchi, per chi non ha argomenti, per chi, per avere ragione e per ottenere giustizia, usa la forza bruta e uccide. Non è caduto inerme solo Gianluca ieri. Sarebbe troppo semplice. Sopra quell’asfalto ci sono anche i nostri occhi, c’è l’atavico silenzio di chi è abituato a sopportare, ci sono le stupide giustificazioni legate al fato o al destino o, ancora, alla malasorte. Come se Orune fosse Macondo.
Ci sono passaggi difficili da raccontare e da analizzare. Un omicidio, poi, non è un tema semplice seppure, a volte, si uccide per motivi banali. Ecco, la domanda che tutti ci poniamo sempre, davanti all’assassinio, è: perché lo ha fatto? La risposta però non ci può tranquillizzare, non possiamo mai assolvere quel reato, qualunque sia il movente. E’ un gesto estremo, senza speranza e senza possibilità di recupero. Chi ha commesso un omicidio, quando poi finisce in carcere e nel tempo elabora, si rende conto dell’enormità, dell’impossibilità di poter riparare. Quando ritorna all’atto, nella maggior parte dei casi riesce a dire: “E’ stato un attimo, dove il cervello non rispondeva”. Il problema è un altro: chiedersi perché si è arrivati a quell’attimo, a quel punto di non ritorno e cosa è stato costruito affinché non si giungesse a distruggere la vita di un uomo.
E’ stato distrutto, da tempo, lo spazio per la mediazione sociale. Ci si insulta per una precedenza non data, ci si strattona se si salta una fila, si costruisce il ghigno perfido se non si è capaci di argomentare le proprie ragioni. Lo viviamo quotidianamente: è una società che corre verso qualcosa che non conosce, che non ha pianificato. E’ una società che ha dimenticato il dialogo, le ragioni dell’altro, la civica convivenza. Si interrompe una storia d’amore con un messaggio o, semplicemente, annunciandolo sul social network, la piazza dove tutti urlano e nessuno ascolta.
C’è un ultimo passaggio che occorre fare, per Gianluca e per l’intera comunità: provare a restituire il peso alle parole, provare a rimettere al centro la vita e la dignità. Non è più tempo di silenzi complici. Quel corpo sulla strada, quel supplizio assurdo, quelle anime pietrificate davanti ad una vita distrutta, non ci permettono altre pause. La parola deve riprendere a disegnare le storie della nostra comunità e cancellare il fucile. Questo dobbiamo fare. Semplicemente.