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In morte di Andrea Camilleri

In morte di Andrea Camilleri

“Se potessi vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio ‘cunto’, passare tra il pubblico con la coppola in mano”. Come un antico cantastorie. (Andrea Camilleri).

 

Non parlerò del Commissario Montalbano. Lo hanno fatto e lo faranno in molti, alcuni molto meglio di me. Parlerò del cantastorie Camilleri, di quello che mi ha fatto comprendere quanto sia importante l’arte del narrare e del saper camminare su un palcoscenico. Camilleri lo conobbi – letteralmente – per merito di un mio collega calabrese che mi suggerì, in una giornata assolata romana,  uno strano titolo “La concessione del telefono”. Aggiunse che era di un autore bravissimo, e che il libro era scritto in uno stranissimo siciliano comprensibile a tutti. Quel libro, il mio primo libro che lessi di Camilleri, mi fece scoprire un mondo che avevo abbandonato nella tarda adolescenza, legato a Sciascia e a Pirandello. Quel libro e quella storia divennero come la base musicale di tutte le cose che ho letto in seguito. La concessione del telefono meriterebbe una lettura nelle scuole per comprendere la costruzione letteraria, per il gioco sottile che Camilleri costruisce intorno ad alcune maschere, per la gioiosità nel narrare e la sapienza intellettuale che c’è in chi ha il genio di scrivere. Insieme alla concessione del telefono suggerisco la lettura de “La scomparsa di Patò”, campione di colpi di scena e di sgambetti istituzionali tra l’arma dei Carabinieri e la Polizia di Stato. Uno spasso. Una gioia infinita che riempie le serate. Leggere Camilleri e i suoi incredibili personaggi è come passeggiare dentro un paese che non è mai mutato. Filippo Genaurdi, il protagonista de “la concessione del telefono” e il prefetto Vittorio Marascianni non sono vissuti solo tra il 1891 e il 1892 a Vigata ma, incredibilmente, sono vivi, sono tra noi. Siamo noi. Quelli alla ricerca di una soluzione a tutti i costi, quelli che burocratizzano tutto, quelli che costruiscono complotti, quelli che pensano degli avversari tutto il male possibile. Così Marascianni ritiene  che Genuardi non sia un semplice commerciante che stia richiedendo la concessione dell’apparecchio telefonico all’interno della sua attività ma, dietro quella richiesta di concessione, si cela, secondo il prefetto, un agitatore socialista. La storia si dipana tra mille sfaccettature: tra la mafia e la falsità, nelle scale di un teatro che è l’Italia. Dopo aver letto questo libro – uscito nel 1998 – mi resi conto che Camilleri era un punto di partenza: un nuovo punto di partenza rispetto alle mie vecchie e poderose letture. Alcuni passaggi del libro e di molti racconti che cominciai a leggere – compreso, ovviamente Montalbano – mi fecero persuaso che ero davanti ad un gigante della letteratura e che tutto quello che avevo scritto era soltanto pessima narrazione. Mi vergognai moltissimo dei miei racconti e non avevo  capito che Camilleri era molto più grande di quanto potessi immaginare. Me ne resi conto quando scrisse un intervento per il quotidiano “La Repubblica”, pubblicato il 10 marzo 2018, relativo alla felicità. Ad un certo punto il grande Andrea scrive:”  Poco tempo fa mentre stavo lavorando tranquillo su uno dei miei romanzi, all’improvviso il diavolo, o chi ne fa le veci, mi fece venire in mente Delitto e castigo. Così chiesi di rileggermi la pagina dove Dostoevskij descrive Raskòl’nikov quando sale le scale per andare ad ammazzare l’usuraia. E ad ascoltare quella pagina di una tale bellezza, di una tale bravura, di una tale felicità di scrittura, io mi sono avvilito perché ho avvertito il senso del mio fallimento.” Rimasi davvero scosso per questa dichiarazione molto vicino al mio pensiero. Solo che, più modestamente mi paragonavo a Camilleri e mai avrei potuto osare di pensare a Dostoevskij. Però – ed è questo il punto – mi resi conto della grandezza di un autore che avrebbe meritato molto di più dalla cerchia letteraria che non lo ha mai amato. “La concessione del telefono” è un piccolo capolavoro quasi snobbato dalla critica ufficiale e ritenuto un “romanzo minore”. Non è così. Chi legge questo libro capisce quanto sia importante dosare le parole, quanto sia difficile scrivere e quanta fatica ci vuole per far camminare in maniera sublime tutte le figure nel palcoscenico di un libro. Leggendo Camilleri mi vergogno moltissimo e avverto il senso del mio fallimento letterario. Non potrei mai, alla fine del mio raccontare, passare tra il pubblico con la coppola in mano. Andrea Camilleri se lo può permettere e non solo insieme  a Dostoevskij ma con Sciascia, Pirandello, Follett, King. Però,  pensarci bene,  forse è l’unico che può sedersi davanti al pubblico e chiedere, con un sorriso serissimo: “Ma tutto questo che mi viene a significare?”

Giampaolo Cassitta

19:42 , 28 Luglio 2019 Commenti disabilitati su In morte di Andrea Camilleri